Faghan: figlie dell’Afghanistan
A Bolzano in mostra le storie delle donne scappate dal regime dei talebani

“Sulle tracce di Antigone – Percorsi di vita resistenti al femminile” è la rassegna culturale promossa da Arci Bolzano-Bozen per valorizzare la fermezza delle figure femminili nel mondo.
“La scelta di portare la mostra di Simona Ghizzoni a Bolzano – spiega Alessandra Pini, operatrice culturale di Arci – nasce dalla volontà di riportare all’attenzione della comunità la situazione complicata in cui versa l’Afghanistan negli ultimi anni, a partire dall’agosto del 2021 e dalle conseguenze che ha avuto il ritorno dei talebani e l’istaurarsi della dittatura di stampo religioso sulla popolazione, ma anche per i continui e devastanti disastri naturali che stanno colpendo il paese”.
Il progetto Faghan nasce dall’iniziativa di NOVE Caring Humans nell’offrire a 19 donne afghane, arrivate in Italia attraverso corridoi umanitari, la possibilità di riappropriarsi della loro identità. Con il loro ritorno, infatti, i talebani hanno sancito un durissimo apartheid di genere che segrega le donne tra le mura domestiche, vietando loro di studiare, lavorare fuori casa, frequentare palestre, parchi, saloni di bellezza, oltre che di mostrare il loro volto e far sentire la loro voce. “Raccontare il conflitto, visto e vissuto dalle donne – spiega Simona Ghizzoni, fotografa – è un tema che mi è molto caro e su cui ho lavorato molto insieme alla mia collega giornalista Emanuela Zuccalà”.
Quali sono state le difficoltà nella realizzazione del progetto?
Sicuramente non di relazione con queste donne, che è stata splendida. Abbiamo trascorso insieme tre giorni: al mattino si tenevano i laboratori sui diritti umani, mentre nel pomeriggio avevamo le sessioni di scatto in studio. La difficoltà è la linea sottile con cui riesci a raccontare il trauma che hanno vissuto senza vittimizzarle: ragione per cui è stata delicata la scelta dello studio e addirittura del tipo di luce. Hanno scelto loro come vestirsi – in abiti tradizionali oppure più “occidentali” - come e se truccarsi e sistemarsi i capelli; insomma, ognuna era libera di essere come si sentiva. Essere di fronte a donne, anche molto giovani, che hanno vissuto una vita difficile e che sono dovute andare via dalla loro terra è complicato. Come ti poni davanti al dolore degli altri? Come provi a creare un dialogo, in quel momento, senza cadere nel cliché visivo della vittima? È questa la difficoltà. Ho evitato di iper-drammatizzare i ritratti e questo è proprio ciò che di inaspettato emerge dalla mostra: è lontana dagli stereotipi che abbiamo della donna afghana. La mostra, poi, si compone delle immagini, dei testi che le donne hanno scritto – frutto dei laboratori – e del documentario per la regia di Emanuela Zuccalà, in cui vengono intervistate alcune delle donne fotografate. Questi tre elementi devono rimanere sempre legati, perché aiutano a capire lo scenario da cui queste donne arrivano e ad approfondire il loro vissuto.
C’è quindi la necessità di trovare un equilibrio tra il racconto del dolore e il desiderio di trasmettere la forza di queste donne. È la prima volta che facevi ritratti in studio?
Quando raccontavo altri conflitti nelle aree del mediterraneo andavo sempre sul posto, a casa delle persone. Ho affrontato questo tipo di tematiche per la prima volta in studio, è stato interessante. La segregazione femminile imposta dai talebani ha portato anche alla cancellazione dell’immagine della donna: la loro scomparsa sociale si riflette anche nella scomparsa delle loro immagini. In più, sono un’appassionata di studio d’epoca. Ho fatto delle ricerche sull’Afghanistan e ho trovato un sito che raccoglie le fotografie di studio. C’era una grande tradizione di foto e ritratti in studio e anche da questo archivio si nota quello che è successo: prima c’erano ritratti di uomini e donne, poi solo di uomini. Ho studiato queste immagini e ho pensato che fosse un modo per ridare a queste donne la possibilità di farsi belle e di venire in studio a farsi fotografare.
“Faghan” incrocia la dimensione sociale e il dramma politico, a quella del dolore e all’autorappresentazione. Scegliere abbigliamento, trucco e parrucco – che in questo caso non sono solo gesti estetici, ma anche politici – rappresenta la libertà delle donne, come riscatto politico e identitario.
Alcune di queste donne erano attiviste politiche prima di arrivare in Italia. Quello che accomuna tutte è il tema profondo di dover ritrovare una propria identità in diaspora. È emersa, complessivamente e dalle scelte delle donne, una grandissima varietà di atteggiamenti, pose, posture, che ci restituisce un enorme ventaglio di possibilità e che ribadisce che ogni persona ha la sua storia. La dimensione del ritratto 1:1 mi ha ricordato – lo diciamo tutti spesso, ma poi è difficile da mettere in pratica – che dietro ai grandi drammi che avvengono nel mondo ci sono sempre persone con un nome, una storia, dei desideri e dei sogni, ognuna diversa dall’altra.
[Ana Andros]
La mostra “Faghan” sarà visitabile al Centro Trevi di Bolzano dal 4 al 17 ottobre.
All’inaugurazione sarà presente Simona Ghizzoni. Il 9 ottobre, alle ore 18, nella Sala -1 del Centro Trevi è prevista la proiezione del documentario di Emanuela Zuccalà, in dialogo con Fatima, una delle protagoniste, e il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane).
















































































































































































