Alla ricerca del paesaggio (sonoro) alpino
Gregorio Bardini, musicista e compositore, è alle prese con un dottorato particolare

Uscita quest’anno la ristampa greca su cd del suo album digitale “Catallaxia”, ispirato alla teoria economica catallattica che vede il mercato come un sistema ordinato e spontaneo retto sull’interazione tra individui che perseguono i propri fini, il flautista e compositore di Lana Gregorio Bardini è attualmente impegnato in un dottorato di ricerca sul paesaggio sonoro dell’area alpina e prepara la sua nuova fatica discografica per il 2026.
Mantovano di Revere, diploma al Conservatorio di Parma e laurea al DAMS di Bologna, Bardini ha accompagnato ancora minorenne i Tuxedomoon nei loro concerti italiani, suonando poi con Steve Piccolo dei Lounge Lizards e Tony Wakeford dei Death in June, studiando composizione con Sylvano Bussotti e improvvisazione jazz con Gianluigi Trovesi, per citare solo alcune delle sue esperienze e abbinarlo alla musica contemporanea come suo interesse principale anche se non esclusivo, come attesta la sua presenza dal vivo nel gruppo neo-folk romano Rose Rovine e Amanti e come emergerà anche da questa chiacchierata.
Iniziamo dalla tua attività di ricerca: dopo due saggi dedicati allo sciamanesimo in musica e a Padre Komitas, cosa stai scoprendo sui suoni delle Alpi? Esistono davvero una cultura e un’identità musicale “alpine”?
Quest’ultimo è un progetto bandito dal Conservatorio di Brescia e dall’Accademia nazionale di Danza di Roma che impegna tre danzatrici e tre musicisti, dove ognuno propone una sua idea. La mia è quella d’indagare il soundscape in area alpina, circoscrivendo in particolare il discorso al Burgraviato e alla Val Venosta, luoghi vicini a dove vivo. Tratterò anche il tema dell’identità e di un eventuale denominatore comune nell’arco alpino ma centrale rimarrà una ricerca sul campo nell’area geografica menzionata, con registrazioni dal vivo comprendenti ogni tipo di fenomeno acustico, della biosfera, dell’antroposfera e della geosfera, inclusi quelli dovuti all’overtourism o al traffico, così come a certe lavorazioni artigianali e industriali. Dovendo anche essere abbinato a una composizione originale di musica concreta, non sarà pertanto un lavoro etnomusicologico vero e proprio, pur riflettendo io nell’ultima parte sull’influenza dell’ambiente naturale nell’utilizzo di tecniche vocali o di altre forme musicali, senza per questo credere che esistano né una cultura, né un’identità musicale alpina. Basti pensare all’alpinismo che, ancora prima dei tedeschi, è stato appannaggio degli inglesi e delle loro tematiche romantiche, figlie sì della rivalutazione dell’amor patrio ma anche del sublime e dell’irrazionale. Dobbiamo qualcosa anche ai francesi, come ci insegna il termine Dolomiti…
Di tipico si finirà insomma per scoprire che non c’è nulla nemmeno in Venosta?
Sapete cos’è il Kletterklump? A Castelbello c’è un masso con delle coppelle, come se ne trovano tanti nell’arco alpino utilizzati per riti precristiani, che però ha una particolarità: se sospinta un po’, la pietra si muove e produce un suono profondissimo, molto cupo e che si sente per tutta la valle. Una scultura naturale sonora, in pratica sconosciuta anche ai ricercatori di Innsbruck, utilizzata da sempre per dare dei segnali di pericolo nei casi in cui era sconsigliato l’uso delle campane perché troppo evidente.
Hai mai avvertito come limitato il flauto rispetto alle potenzialità che hanno altri strumenti?
No, perché il flauto traverso è il mio strumento principale, ovviamente legato alla tradizione classica e che io in omaggio alla mia formazione ho sempre inserito senza trattamenti se non un minimo d’effetto nelle mie collaborazioni anche nell’ambito della musica post-punk o industriale, benché a livello compositivo lo stia utilizzando solo di recente avendo prima privilegiato l’elettronica o processi di composizione collettiva nei gruppi dove suonavo. Anche il mio ultimo album Catallaxia è molto poco flautistico in fondo: già uscito in modo immateriale per Arx Collana, ora è su cd come tutti gli altri miei titoli grazie a una piccola etichetta greca.
Ti ritieni un compositore di contemporanea o ti sembra riduttivo per il fatto di aver partecipato a tante correnti musicali diverse?
Penso di muovermi nell’ambito della musica contemporanea del Novecento, che quando facevo la prima media è stato il mio riferimento, al punto da rendermi poi difficile lo studio di Mozart e Beethoven, il farmeli piacere. Al primo saggio ho presentato Hindemith, poi mi sono innamorato di Stravinsky e Debussy, alle scuole medie ascoltavo già Varese e Kazuo Fukushima, li ho suonati tanto e mi hanno lasciato una grossa impronta. Mi ritengo contemporaneo nell’aver virato da un genere all’altro, dal folk alla musica industriale, riuscendo a tenere presente il frutto di tutte queste esperienze a prescindere dall’etichetta di contemporanea o peggio ancora di musica colta che si voglia darle.
[Daniele Barina]
















































































































































































