Maria Pia Zanetti, una voce per il teatro
Intervista all’attrice radiofonica e teatrale e docente di dizione

Maria Pia Zanetti, notissima voce bolzanina, attrice radiofonica e teatrale, docente di dizione, ortofonetica e ortoepia, da anni attiva sul territorio, ci racconta il suo percorso artistico attraverso le molte sfaccettature della sua carriera.
Quando è nata la passione per il tuo lavoro? Quali sono stati i momenti e i maestri che ti hanno particolarmente formata?
Non è retorica, ma ho iniziato veramente per caso: non mi sono mai detta “voglio fare l’attrice”; è stata una casualità dettata da una serie di occasioni e di opportunità. Avevo deciso di fare la maestra elementare e ho scelto così di frequentare le magistrali. Durante l’ultimo anno ho cominciato a fare tirocinio nelle aule, con i bambini. Lì c’è stato un blocco: mi sono spaventata, investita di una responsabilità troppo grande. Ho pensato quindi all’università, con l’idea di insegnare poi ai ragazzi delle superiori. Durante il quinto anno integrativo mi è capitato sott’occhio un corso di dizione e ortoepia. Dato il mio amore sconfinato per la letteratura e per la lingua italiana – per la parola – mi sono iscritta, ma semplicemente per interesse personale. L’insegnante era un’ex attrice radiofonica della sede RAI di Bolzano. Mi sente parlare e leggere e mi dice: “Alla RAI di Bolzano vogliono formare un vivaio di voci giovani, nuove: prova”. Mi sono fatta coraggio e ho tentato il provino. Qualche settimana dopo mi è arrivata la proposta: una trasmissione radiofonica con un contratto di tre mesi. Da lì partono tutta una serie di contratti e mi ritrovo ad abbandonare l’idea dell’università e a lavorare a tempo pieno. Non sono stata, come si dice “folgorata sulla via di Damasco”: il mio amore e la mia passione per questo lavoro sono nate, sono cresciute e si sono fortificate con l’esperienza, sul campo.
Come sei arrivata al teatro e alla didattica?
Facevo molti spot radiofonici per radio private e l’attuale caporedattore della RAI altoatesina, Sergio Mucci, con il quale collaboravo, mi ha convinto che fosse per me una buona occasione iscrivermi alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Bolzano, allora diretto da Marco Bernardi, che aveva avuto la felice intuizione di iniziare un tale percorso per formare nuovi attori; opportunità che oggi, purtroppo, qui da noi non c’è più. Dato che all’epoca davo voce a moltissimi sceneggiati e varietà radiofonici, ho pensato di coglierla, per approfondire le dinamiche attoriali. La sera del saggio finale Luigi Ottoni, all’epoca assistente alla regia di Bernardi, mi propose la scrittura per uno spettacolo in estiva. Ho debuttato così in quel bellissimo Lauben di Roberto Cavosi che avevo in realtà già interpretato in tv per la Rai, nella mia unica esperienza di sceneggiato televisivo. Così è cominciata la mia avventura in teatro, provvidenziale perché dopo qualche anno la RAI non ha più fatto lavorare internamente gli attori, se non sporadicamente.
Per quanto riguarda l’insegnamento dell’ortoepia, amo far scoprire alle persone cose di cui magari sono completamente all’oscuro, tirar fuori consapevolezza della nostra splendida ed eufonica lingua e, perché no, anche talenti sopiti. Ho allievi di tutte le età, dai giovanissimi ai più “âgés”. La famosa chiusura del cerchio: alla fine sono ritornata comunque a fare quanto pensato in origine: insegnare, trasmettere qualcosa agli altri.
Del tuo periodo di grandi tournée con il TSB di Marco Bernardi, c’è uno spettacolo a cui sei particolarmente legata?
La prima tournée che ho fatto è stata per Il maggiore Barbara di Bernard Shaw, regia di Marco Bernardi, con Gianrico Tedeschi. All’epoca le tournée duravano moltissimi mesi, è stato il periodo più bello, più denso, più completo, anche per un fatto anagrafico: tra i 25 e i 35 anni sei ancora giovane, però hai già acquisito esperienza, sicurezza, sai un po’ meglio come muoverti nel lavoro e nel mondo. E anche perché la tournée ti prende a 360 gradi, non è solo un lavoro, diventa la tua vita. È faticoso da un punto di vista fisico e personale: si dorme poco, si mangia dove capita, pure se ci si ammala si va in scena, ma ti dà gioia, energia. Invece lo spettacolo a cui sono più legata è forse La locandiera di Goldoni, storica regia di Bernardi per il TSB, in cui interpretavo Dejanira: è stata l’occasione migliore che ho avuto, anche perché l’abbiamo portata in giro per cinque anni. È quella che mi ha dato l’opportunità di lavorare di più sul personaggio e su me stessa, di migliorare costantemente.
Come è cambiata la scena artistica bolzanina dai tuoi esordi e che direzione, secondo te, sta prendendo?
C’è un’offerta molto maggiore rispetto a quando ero ragazza io. Però oggi è tutto smart, veloce, mordi e fuggi, si approfondisce poco. Rispetto ai miei tempi, in cui si andava a teatro e si stava incollati alle poltrone anche per più di tre ore con due intervalli senza fiatare, è sempre più raro trovare nel pubblico questa disponibilità, questa capacità di attenzione. E, purtroppo, i teatri si adeguano. Tuttavia, penso che se non ci prendiamo il tempo per un’offerta culturale di qualità, che aiuti a riflettere, ad approfondire, si vada verso un depauperamento generale che diviene un danno per l’intera società.
[Alessandra Limetti]

















