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Paolo Rumiz, scrittore e viaggiatore modera Paolo Mazzucato La quarantena sta per finire e io ho già paura del mondo. Paura di uscire, paura che non cambi nulla. Che la gente, invece di rallentare, acceleri ulteriormente per recuperare il tempo perduto. Paura che tutto resti come prima, anzi peggio. Ma se non cambiamo pelle, che senso avrà avuto tutto questo? Con “Il veliero sul tetto” (Feltrinelli, 2020) Paolo Rumiz tiene un diario della clausura che entra sotto la pelle della cronaca, per restituirci il cuore di una grande mutazione, «al termine della quale non saremo più gli stessi». Nel vuoto della quarantena, la bora pulisce l'aria, il mondo è sfebbrato, respira. La casa miagola, geme, rimbomba come un pianoforte pieno di vento mentre la città stessa vibra come un sismografo su linee di faglia. E un mattino l'autore sale per una botola fin sul tetto, che diventa il suo veliero. Lì il suo sguardo si fa aeronautico, gli spalanca la visione della catastrofe e allo stesso tempo del potenziale di intelligenza e solidarietà che può ancora evitarla. Gli svela un'Europa col fiato sospeso, dai villaggi irlandesi alle isole estreme delle Cicladi, dalle valli più segrete dei Carpazi al lento fluire della Neva a Pietroburgo. Milioni di persone che vegliano, incerte sul loro futuro. Gli affetti veri sono resi più vicini dalla forzata lontananza, e si scrive a chi si ama come soldati in trincea, mentre il virus accelera la presa d'atto di un processo che obbliga a riprogettare il proprio ruolo di cittadini in un mondo diverso.